Il Prologo
La luna è piena e i fari dell’auto che sfreccia nella notte
di Pyramid sembrano superflui. Le ruote mordono l’asfalto
come cani rabbiosi e il motore grida tutta la sua potenza. Una
curva a gomito attende la macchina che sta andando troppo
veloce: una frenata, una sbandata e l’auto inizia a rotolare su
se stessa emettendo gemiti metallici. Qualcuno viene sbalzato
dal sedile del guidatore mentre la macchina finisce la sua folle
carambola in un fossato. Dopo qualche secondo di silenzio
assoluto un rumore sordo.
La notte si colora di fiamme sempre più alte.
Ampi specchi circondano il grande tavolo bianco e rotondo
attorno al quale siedono, su sedie bianche, sei figure che indossano cappucci neri, tuniche rosso sangue e guanti neri. Di
fronte ad ogni incappucciato, sul tavolo, arde una candela.
Nella penombra, un po’ in disparte, sopra un ripiano di
legno nero è seduta, su una specie di trono ricoperto di velluto rosso, una settima figura che indossa, a differenza delle
altre, un cappuccio bianco, una tunica azzurra e un paio di
guanti bianchi.
La tensione sembra rimbalzare tra gli specchi quando uno
degli incappucciati, un uomo, parla con tono solenne:
- È arrivato il giorno che stiamo aspettando da sempre!
Quattro ragazzi, due maschi e due femmine, col volto scoperto, con delle tuniche bianche e con dei guanti neri si avvicinano lentamente al tavolo portando ciascuno, su un cuscinetto
di seta azzurra, un cellulare. Con gesti misurati depongono i
telefonini al centro del tavolo.
Una delle ragazze si avvicina alla figura seduta sul trono e
prende in consegna altri due cellulari che poi dispone accanto
ai quattro che già sono sul tavolo.
L’incappucciato che aveva parlato precedentemente pone di
fronte a ognuno dei presenti un cellulare. Lui prende l’ultimo
rimasto, lo mette davanti a sé e allarga le braccia.
A quel gesto tutti e sei si prendono per mano.
Sempre lo stesso riprende a parlare:
- Stasera saremo salvati!
L’uomo alza lo sguardo verso l’alto.
- Ora aspettiamo che chiami.
Un silenzio lunghissimo pare trafiggere i cuori dei presenti
le cui mani guantate tremano ogni secondo di più.
Improvvisamente il silenzio è squarciato da uno squillo.
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Le cinque piramidi di vetro, sfiorando il cielo stellato, svettavano maestose sull’isola caraibica dove sorgeva la grande cittàstato di Pyramid, una città che aveva appena toccato i dieci
milioni di abitanti e che racchiudeva tutta la sua vita proprio
nelle gigantesche piramidi che si specchiavano nell’oceano.
La Business Pyramid si ergeva a nord dell’isola e ospitava
la vita economica dello Stato: assicurazioni, società finanziarie,
banche e tutto ciò che riguardava in qualche modo gli affari.
Nella Business Pyramid erano collocati anche tutti i numerosissimi uffici dei tour operator: la maggior fonte d’entrata della
città infatti era il turismo poiché milioni di persone da tutto il
mondo invadevano, ogni anno, le splendide spiagge dell’isola.
A est sorgeva la “piramide dell’amicizia”, la Friendship
Pyramid, che conteneva il Pyramid Hospital, modernissimo, la
ricca biblioteca cittadina, il museo di Stato, il Museum of Sir
Leopold Kimbler, dedicato al fondatore della città e capostipite della famiglia che la governava, grande amante dell’antico
Egitto da cui avevano preso spunto le piramidi. Naturalmente,
nel museo che portava il suo nome, erano custoditi preziosissimi reperti dell’Egitto dei faraoni. Nella stessa piramide si
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trovavano la State University e le scuole di ogni ordine e grado.
Conteneva anche tutti i mass-media, giornali, televisioni, radio.
Nella parte opposta dell’isola, a ovest, s’innalzava la Shopping Pyramid la quale pullulava di migliaia di negozi e dove si
poteva trovare qualsiasi prodotto in commercio nel mondo.
I piani inferiori della Shopping Pyramid erano contraddistinti
anche dalla presenza di numerosissime concessionarie automobilistiche, di officine meccaniche e di carrozzerie.
A sud si stagliava la Funny’s Pyramid, la piramide del divertimento. Qui trovavano posto innumerevoli ristoranti,
discoteche, cinema, teatri, casinò, palestre, piscine, sale giochi. La Funny’s Pyramid era anche il regno del sesso a pagamento: veri e propri bordelli legalizzati dove ci si poteva
appartare con splendide ragazze o bellissimi ragazzi, night
club per tutti i gusti, dal più raffinato al più crudo, saune
thailandesi, locali gay che davano la possibilità a ciascuno di
sfogare i propri istinti sessuali.
Infine, al centro della città svettava la piramide più grande, alta milleduecento metri, la Kimbler Pyramid, dove avevano sede il governo, gli uffici statali, le forze armate, la
polizia e i servizi segreti. L’ultimo piano della Kimbler Pyramid era la residenza della famiglia Kimbler, una residenza
che si raccontava, pochissimi avessero potuto vedere, fosse
una vera e propria reggia ipertecnologica e tempestata di
oro e diamanti.
Gli abitanti di Pyramid adoravano le loro piramidi che chiamavano semplicemente Business, Friendship, Shopping, Funny. Solo la piramide centrale veniva chiamata, quasi con una
sorta d’inconscia soggezione, Kimbler Pyramid.
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Mark Krison stava uscendo dalla solita festicciola del venerdì. Ogni fine settimana, infatti, un vigile del fuoco organizzava
un incontro a casa propria invitando i colleghi del suo dipartimento e le loro famiglie. Krison era ormai stufo di quelle feste
durante le quali si finiva sempre col parlare di lavoro tanto che,
quasi quasi, preferiva quei venerdì in cui scoppiava un incendio
in modo da poter evitare quel tormento settimanale. Scendendo gli ultimi scalini che portavano al marciapiede Krison pensò,
però, che, in fondo, anche quelle riunioni conviviali facevano
parte del suo lavoro perché servivano a rinsaldare l’amicizia e
la solidarietà del gruppo, una solidarietà fondamentale quando
ci si trovava uniti di fronte alla forza bestiale del fuoco.
Il marciapiede e la strada erano silenziosi, una cosa molto
rara per Pyramid, pensò Krison, abituato ad un traffico infernale ventiquattr’ore su ventiquattro. Il collega che aveva organizzato quella serata abitava nella zona della Business, una zona
costellata di piccole succursali dei grandi uffici che avevano
tutti sede nella piramide e quindi in uno dei pochi settori della
città non molto frequentato la notte.
Fatti pochi passi Krison sentì uno squillo. Si guardò intorno e s’accorse che il suono proveniva da un telefono
pubblico che si trovava proprio di fronte a lui. Gli sembrò
strano che suonasse così, a vuoto, senza nessuno pronto a
rispondere. Si avvicinò alla cabina telefonica e subito notò
che a suonare era un cellulare posto proprio sopra il telefono pubblico. Dopo un attimo di stupore il lungo volto di
Krison, con il suo pizzetto tagliato alla perfezione, si aprì
in un sorriso. Certamente qualcuno lo aveva dimenticato lì.
Decise di rispondere per comunicare a chi chiamava che il
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cellulare con cui si era messo in contatto era stato smarrito
e che avrebbe potuto avvertire il proprietario di venire a
riprenderselo presso la caserma dei vigili del fuoco situata
nella Friendship Pyramid. Magari, pensò Krison, ne usciva anche una ricompensa. Inoltre era incuriosito da quello
squillo che sembrava proprio suonare per lui.
Con le sue mani robuste afferrò il cellulare.
- Pronto!
Una voce metallica sentenziò:
- Tu adesso morirai!
E subito la comunicazione s’interruppe.
Sentendo quelle parole Krison fu attraversato da un brivido.
Poi però si passò una mano sul volto e sorrise di nuovo. O era uno
scherzo dei suoi colleghi, veri professionisti in materia, o si era imbattuto in qualche pazzoide. Si guardò attorno: non c’era proprio
nessuno pronto a fargli la pelle. Allora si infilò il cellulare in tasca
ripromettendosi di raccontare tutto a Wanda, sua moglie, che quella sera era rimasta a casa in attesa dell’arrivo della madre. Wanda
era, tra l’altro, una grande appassionata di gialli e così gli avrebbe
anche consigliato cosa fare con quel misterioso telefonino.
Krison si incamminò verso la macchina, che era parcheggiata subito al di là di un vicolo piccolo e stretto, controllando se
in tasca aveva le chiavi e, toccandole, ci giocò con le dita. Stava
per arrivare alla sua Toyota quando qualcuno lo afferrò per la
giacca. Krison, sbilanciato, per non cadere, si appoggiò al muro
del vicolo in cui si trovava. Alzò lo sguardo quel tanto per vedere i riflessi della luna giocare sulla lama di un coltello. La
prima coltellata fu solo dolore, un dolore immenso, la seconda
fu puro terrore, la terza gli aprì le porte dell’eternità.
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Sotto la stessa luna il più giovane dei cinque poliziotti addetti alla reception della Centrale di polizia di Pyramid alzò gli
occhi dal giornale sportivo che stava leggendo per trovarsi di
fronte un uomo strano che indossava un impermeabile blu,
capo di abbigliamento inconsueto per Pyramid dove era sempre estate e la temperatura era sempre elevata. I capelli castani
gli cadevano sugli occhi verdi e una barba lunga e incolta sembrava nascondere il suo volto pallido.
- Desidera?
Il poliziotto aspettava con noia malcelata l’ennesima stronzata dell’ennesimo barbone del cazzo.
L’uomo aprì l’impermeabile ed il poliziotto vide una mazza da baseball insanguinata infilata in una delle tasche interne.
Fece per afferrare la pistola ma l’uomo fu più veloce di lui:
estrasse la mazza ma, invece di colpirlo, la gettò a terra.
Il giovane poliziotto riconobbe subito chi gli stava di fronte
e, ancora incredulo, ordinò a Drenan Stoke di inginocchiarsi.
Drenan Stoke, uno dei serial killer più famosi non solo di
Pyramid ma della storia. Drenan Stoke che, con la sua mazza
da baseball, aveva ammazzato trentasette persone colpevoli,
secondo lui, di aver abusato di bambini, era ora in ginocchio
davanti ad una decina di poliziotti che lo avevano subito circondato. Gli occhi spenti dell’uomo erano fissi sul giovane
agente che, per primo, gli aveva puntato contro la pistola.
- Arrestami! – disse.
In quella sala della Kimbler Pyramid il calore era ancora più
torrido di quello esterno che, con i suoi quarantatre gradi all’ombra, non scherzava di certo. In quella sala dall’aria condizionata
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resa inefficace dalla calca di poliziotti, giornalisti, cameramen,
fotografi Michael Limkow, cronista cinquantenne della Pyramid
Gazette, il più autorevole quotidiano dell’isola, sudava come tutti
nell’attesa dell’arrivo del capo della polizia, Robert Sander, che di lì
a poco avrebbe tenuto una conferenza stampa. Infatti, all’improvviso, accolto dai flash delle macchine fotografiche e dai riflettori
delle televisioni, accompagnato da due poliziotte con il fisico da
copertina, comparve Sander. Indossava la lucente uniforme delle
grandi occasioni che rendeva ancora più massiccia la sua corporatura. Appoggiò le mani sul ripiano che sorreggeva il microfono.
Immediatamente una poliziotta si precipitò ad alzarglielo perché
l’altezza del sessantenne numero uno della polizia dell’isola non
era da meno, con il suo metro e novantacinque, alla sua corporatura. Gli occhi piccoli e grigi si guardarono intorno in attesa che il
brusio scemasse e quando si sentirono solo il rumore dei flash, il
ticchettio dei computer e lo stropiccio della carta dei taccuini iniziò a parlare, in tono solenne, con la sua classica voce cupa:
- Come già saprete questa notte il pluriomicida Drenan Stoke si è costituito alla polizia di Pyramid. Dati i gravissimi reati
di cui si è macchiato, mi è stato appena comunicato che sarà il
presidente Robert Kimbler in persona a decidere se dovrà essere processato, condannato direttamente all’ergastolo o portato
immediatamente davanti al plotone di esecuzione. Proseguì poi
enumerando la serie di omicidi commessi da Stoke ed il suo
modus operandi.
Limkow, quasi sommerso dai colleghi, riuscì comunque a
interrompere Sander.
- Il fatto che Stoke si sia presentato alla polizia spontaneamente e si sia costituito non potrebbe rappresentare un’attenuante?
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Sander girò lo sguardo duro come l’acciaio fino a posarlo
su Limkow.
- Sarà il presidente Kimbler a decidere il trattamento da riservare a un serial killer come lui.
Domande di vario tipo fioccarono sul capo della polizia: in
che condizioni si era presentato Stoke, se si era detto pentito
per i crimini commessi, se la polizia si aspettava l’improvviso
cedimento del pluriassassino e molte altre. Sander rispondeva
sempre più spazientito perché, come tutti sapevano, odiava i
giornalisti e li odiava a tal punto che una sera, ad una cerimonia
per la consegna delle medaglie ai poliziotti più valorosi della
città, li aveva definiti semplicemente “inutili”.
Michael Limkow riuscì, letteralmente ondeggiando in mezzo alla folla dei suoi colleghi, a porre una seconda domanda:
- Poiché Stoke ha perso tragicamente suo figlio per la negligenza di qualcuno si può forse ipotizzare un’incapacità di
intendere e di volere?
Gli occhi grigi di Sander fissarono Limkow facendosi ancora più piccoli e un sibilo uscì dalla sua bocca:
- Odio i buonisti!
Limkow, appena uscito dalla Kimbler Pyramid, emise un
lungo sospiro, ripose in tasca il taccuino ed estrasse un pacchetto di sigarette. Mentre spegneva con un gesto della mano
il fiammifero e aspirava con gusto il sapore della sigaretta sentì
una voce alle sue spalle:
- Bisognerebbe stare molto più attenti alle domande che
si rivolgono al capo della polizia perché si può rischiare di
fare una brutta fine.
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Limkow si voltò di scatto e vide una giovane e bella ragazza, vestita in modo sportivo, con i capelli biondi, lisci e
lunghi sulle spalle che incorniciavano due splendidi occhi
azzurri. Il distintivo che luccicava appeso alla cintura aveva
uno scopo: far sapere a Pyramid che quella ragazza era una
poliziotta.
- Pyramid si sta proprio trasformando in una giungla – replicò irritato il giornalista – visto che ormai si condannano le
persone senza nemmeno l’ombra di un processo.
La ragazza si avvicinò con uno sguardo molto serio.
- Pyramid, signor giornalista, non sta diventando una giungla, è sempre stata una giungla.
L’irritazione di Limkow si trasformò in un sorriso e con un
braccio circondò le spalle della giovane.
- Ciao Kate. E tu la stai difendendo questa giungla?
Anche la ragazza sorrise.
- Si fa quel che si può nonostante il mio capo si sia incazzato
per le domande “buoniste” di mio padre.
Michael e Kate Limkow rientrarono nella piramide e andarono a sedersi a un tavolo di uno dei tanti bar dell’atrio. Limkow
si appoggiò allo schienale della sedia in metallo e borbottò:
- Comunque mi vergogno veramente di essere un cittadino
di Pyramid.
Kate ordinò due caffè.
- Però, papà, secondo me qualcosa in questa città sta cambiando, l’ho notato dal comportamento di diversi colleghi che,
da qualche tempo, iniziano a criticare, anche apertamente, i
metodi poco ortodossi della nostra polizia.
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Una cameriera portò i caffè, Limkow fece per pagare ma
Kate lo fermò con la mano dicendo che era stata lei ad importunarlo. Risero insieme e Kate pagò le consumazioni.
La ragazza si fece seria.
- Io stessa l’altra notte sono intervenuta, insieme ad un collega, per evitare il solito pestaggio del sospettato di turno.
Limkow non disse nulla, poi guardando la figlia negli occhi
sospirò:
- Tua madre sarebbe molto orgogliosa della sua Kate.
Kate abbassò lo sguardo tristemente.
- Già.